Ora che tutto si è risolto e si è dissolto, è almeno chiaro che gli uomini intenti, già da sabato scorso, a scambiarsi mail di lancinante derisione (una risata ci seppellirà) sugli aerei in partenza per il Nepal maoista e quelli che domenica si recavano con la testa bassa tra le spalle quadre a tatuare la propria paura sulla scheda elettorale, in questi anni non si erano mai incrociati neanche con lo sguardo - figurarsi con il pensiero. Il paese reale non difetta tanto di piazze - vuote e metafisiche - in cui calare, tornare e rigenerare il narcisismo ferito della rappresentanza, quanto di strade in cui alzare gli occhi su quelli che no, non sono noi. Nella patria terrestre del cattolicesimo romano il prossimo è una regola che si disincarna nella totale mancanza di eccezioni (proprio come richiede, in fondo, il razionalismo isterico di questo pontificato). Nella terra di elezione del fratricidio, l'odio non si è mai scambiato a quotazioni così alte sul mercato dei pubblici sentimenti - e mai nel contempo è apparso così stanco, così rassegnato, così privo di eloquenza e di entusiasmo: neanche il «ritorneremo» promesso (e sempre mancato) dai fascisti a Roma riesce a prendere il sapore acre e sanguigno del trionfo. Ora che hanno riscoperto il territorio e le frontiere, gli italiani sentono di non avere più la terra sotto i piedi, nel solenne momento del ritorno dell'identità - dell'ordine, del governo finalmente governato e non più solo governabile - scoprono che l'unico valore che li accomuna è l'individuazione bipartisan di un capro espiatorio: i poveri hanno raggiunto i più ricchi dei ricchi ai piedi della pira, nella speranza che il sacrificio dei più poveri dei poveri li riscaldi e soprattutto li risparmi. Alla fine dei conti hanno seguito l'indicazione di quella bambina ungherese che interrogata dopo la repressione sovietica del 1956 sul partito con cui si sarebbe schierata una volta grande rispose: con il più crudele, e alla domanda sul perché aggiunse «perché è quello che mi proteggerà meglio». Ma già l'odio è fiaccato dal sospetto di non bastare alla paura che, da brava paura della paura, è infinita e cava, più forte di ciascuno degli spettri chiamati a raccolta dal suo flauto di ossa. Chiuderemo le frontiere, purificheremo le strade, butteremo a mare tutti i loro che non sono il noi di una comunità costituita solo da impauriti e da ipocondriaci, da servi e da padroni legati da una nuova fedeltà feudale. Ma poi anche il nostro giardino recintato prenderà l'aspetto di un angoscioso deserto irto di minacce, una galera troppo stretta ma, misteriosamente ancora troppo vasta. E non è detto che «finalmente si potrà dormire» con la tranquillità dei morti, come auspicava la voce profetica (e amorosa) dei coniugi di Erba. Questo contributo è stato pubblicato come editoriale su
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