Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso (Guy Debord)
Finalmente vivere servirà a qualcosa!
Nel 2008 il regista Fabrizio Arcuri lavora all’allestimento uno spettacolo che si intitola One Day e il cui sottotitolo suona, in modo piuttosto sintomatico, “ finalmente vivere servirà a qualcosa”. L’idea di uno spettacolo destinato a ricoprire un’intera giornata ha qualcosa di borgesiano, ricorda quella cartografia che nel testo dello scrittore argentino L’artefice (1960) si sovrappone con tale precisione ai contorni e all’estensione del mondo reale dal metterlo drammaticamente in discussione.
E’ un’idea che farà strada anche a partire dal fallimento produttivo del progetto che, invece di affossarlo, ne rilancia il senso in modo altrettanto leggendario, trasformandolo in un riferimento virtuale che moltiplica il suo potere sul mondo: il libro[1], con la drammaturgia elaborata da Magdalena Barile sulla base delle improvvisazioni degli attori dell’Accademia degli Artefatti, diviene così la sua giusta fine o il suo giusto inizio. L’affresco epico-grottesco immaginato a suo tempo da Arcuri era visivamente ispirato a una gigantografia dell’artista cinese Wang Qingsong che sarebbe poi stata esposta al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la mostra “Cina XXI secolo”. Dormitory è un’immagine gremita e concentrazionaria, rappresenta la Cina contemporanea come un immenso dormitorio, un alveare di letti sovrapposti e comunicanti dove decine di personaggi, ciascuno nella sua cella, affrontano la propria vita in modo diverso, ma condividendo la ristrettezza dello stesso spazio. E’ una metafora della globalizzazione calata in un mondo in cui tutti, come dice il sociologo Ulrich Beck, “sono chiamati a rispondere con soluzioni biografiche a problemi sistemici”, l’impietoso still life di un paradosso noto come individualismo conformista. La casa immaginata da Arcuri come scenografia di One Day doveva aprirsi squadernando la sezione di un interno brulicante: stessa idea di una perdita di confini tra il pubblico e il privato, ma mentre per l’artista cinese il collante tra le nude vite crudelmente sovraesposte in Dormitory è la bulimia dei consumi, la ridondanza dei marchi, un collettivismo delle merci che sostituisce (e prosegue nella gradazione dello sviluppo) quello del mito comunista, per il regista romano era (è, dal momento che il suo spettacolo, a quanto sembra, verrà realizzato) il continuo sdoppiamento tra la biografia e la rappresentazione, tra attore e personaggio, all’interno di un mondo che, perduta la fragranza del reale, la sua innocenza esperienziale, si presenta già predisposto alla propria spettacolarizzazione. Per l’umanità di One Day, insomma, lo spettacolo è una seconda natura che si innesta nella prima, facendo smottare la sua presunta spontaneità dalle parti del reality show e di tutte le forme dell’iperrealtà televisiva. Il sottotitolo, “finalmente vivere servirà a qualcosa”, in questo senso, non si applica solo allo spettacolo in quanto tale, nella sua conquista organica del tempo di vita degli spettatori che per ventiquattro ore si trasferiscono nella sua durata, ma alla materia stessa di una vita che, fuori dalla sua metafora teatrale, appare sempre più orientata alla propria reificazione in immagine. Il regista dei Tre pezzi facili di Martin Crimp e del ciclo epico di Mark Ravenhill si disponeva così a utilizzare il palcoscenico come uno spazio di decostruzione, e una possibilità di critica vivente, dei meccanismi di superfetazione mediatica che innervano e potenziano la realtà del reale, trasformandola in quella che Jean Baudrillard, nei suoi ultimi libri ha chiamato “Realtà Integrale” o “Telemorfosi”[2]. Intrattenimento e parodia di tutti gli intrattenimenti chiamata a praticare una ritorsione brechtiana dello spettacolare sul politico (che già di per sé denuncia la sua avvenuta mutazione in una trans- politica delle apparenze) One Day doveva essere l’exploit di quella critica della rappresentazione attraverso la rappresentazione che fa del teatro dell’Accademia degli Artefatti uno dei rari esempi riusciti di teatro politico ancora esistenti nel nostro paese. Con il suo plot sviante di bambini rapiti e terroristi ceceni, puntando non tanto alla cronaca come referente, quanto alla cronaca come standard di comunicazione, One Day ha visto lontano nell’orizzonte di una mediatizzazione della vita che già segnava culmini di irrealtà vicini all’implosione. Col suo sguardo warholiano ha compreso, senza ovviamente poterlo contemplare, il set di Avetrana dove le lacrime di Sabrina e di Michele Misseri hanno offerto una dimostrazione quasi sublime di come il vero possa trasformarsi in un momento del falso; o la provvidenziale irruzione al Marassi del teppista serbo noto come Ivan che, con i suoi bicipiti tatuati di date arcaiche, ha tenuto in ostaggio la platea televisiva, cancellando l’evento programmato con l’evento inatteso che è il vero, nascosto desiderio coltivato da ogni audience. La famiglia tipo rappresentata sulla sua scena era pronta ad accogliere le vergini portate al Drago, i padri e le madri che prostituiscono le figlie con entusiasmo e senza alterare di molto la propria morale piccolo borghese; tutto in qualche modo era prevedibile per una polaroid scattata nel tempo, anche la mutazione antropologica di una lingua che, ben oltre l’omologazione televisiva, unisce la volgarità globish (ti devo briffare) a quella del gergo locale (ne vedrai di ogni), dove la parola amò, declinata con o senza accento, è il collante unico di tutte le relazioni.
Il romanzo delle intercettazioni è il nuovo feuilleton; da un punto di vista artistico c’è solo da rimpiangere la ripetitività e la sconfortante mancanza di talento dei suoi protagonisti: anche forzando oltre ogni limite i colori di un personaggio come Nicole Minetti non si potrà mai ottenere una sola Coralie (l’eroina di Splendore e miseria delle cortigiane di Balzac), così come studiando a fondo Fabrizio Corona si arriva appena alle soglie di Rastignac o di Julien Sorel (e poi si ricade nel baratro prosaico del nulla). Il tramonto del personaggio, insomma, non è più un problema formale della rappresentazione: è un dato della psicologia sociale, un frutto dell’incapacità di raccontarsi a se stessi nell’ambito di un’esistenza liquida, dove i comportamenti, come diceva Hannah Arendt, prevalgono largamente sulle azioni. I personaggi di One day, infatti, sono il risultato della snervante diversione di un’identità solo supposta, volutamente mitica (la Madre, il Padre, il Figlio), in un multiverso di immaginari (cinematografici, musicali, mediatici) che appartengono a tutti e a nessuno nel mondo in cui il destino individuale è la più illusoria e bruciante delle finzioni. I segreti che custodiscono sono fittizi, inconsistenti, o smaccatamente falsi. Nella loro casa di vetro il privato non esiste, l’intera vita appare spostata sul terreno di una continua sperimentazione: “Tutta la nostra realtà è divenuta sperimentale. In assenza di destino, l’uomo moderno è consegnato a una sperimentazione senza limiti su se stesso.”[3] Si vive di interviste, di videomessaggi, di esibizioni e di pseudo-confessioni, mitizzando se stessi davanti agli altri. Ancor prima dell’esplosione planetaria dei social network[4], si cambia incessantemente di profilo.
La nipote di Mubarak
Una menzogna ripetuta tante volte diventa verità (Goebbels)
Karima el Marhoug, alias Ruby Rubacuori, ovvero la nipote di Mubarak potrebbe entrare nella casa scoperchiata di One Day, accanto alla misteriorsa Dolly Bell di cui non si capisce se sia un coniglio di pezza, una bambola gonfiabile o la prostituta protagonista di un film dell’epoca d’oro del cinema di Emir Kusturica. Come la stessa ragazza marocchina ha confidato in un’intervista alla Bild, cambiare versione è la storia della sua vita. Probabilmente, invece, finirà con l’entrare nello spazio sperimentale di un vero reality: Simona Ventura, la vestale dell’Isola dei famosi, ha già dichiarato che la presenza al suo show di Raffaella Fico, una delle pin-.up coinvolte nelle feste di Arcore, è una cartina di tornasole politica. La sua eventuale esclusione nelle prime fasi del gioco, ha aggiunto sorniona, ci farà capire “cosa veramente pensano gli italiani di questa situazione. Se l’Italia è indignata o no.” Fino a qualche tempo fa i pessimisti più radicali temevano che le elezioni si stessero trasformando nell’epifenomeno dei sondaggi, ma non potevano neanche lontanamente immaginare che ai vertici della nostra Stimmungdemokratie, delegati a registrare il tasso reale di indignazione morale del paese, i reality show si apprestassero a soppiantare gli istituti di statistica. La conduttrice, del resto, ci tiene a rimettere a posto le gerarchie della telemorfosi: “Non sono io – dice – che convoco le ragazze che sono state ad Arcore. E’ Arcore che chiama quelle che sono venute all’Isola.” (Poi, scaltramente, aggiunge che ognuna con il suo corpo “fa quello che vuole”: ci mancherebbe solo che il corpo visivo e quello vissuto venissero confusi in una unica pseudo-categoria come quella che attualmente vede gli spacciatori di immagini e i procacciatori di relazioni confondersi sempre di più ai reclutatori di prostitute…). Guardate bene, avverte la celebrante dei riti isolani, dove il Sogno nasce. Rispetto a un desiderio democraticamente condiviso, il potere ha solo il privilegio distintivo del passage à l’acte: può fare quello che tutti sognano ed è questo che in larga misura continua a legittimare il suo continuo presentarsi come un Sogno realizzato. “Sono il sogno di tutte le italiane”, come sembra si sia annunciato il premier Silvio Berlusconi al telefono con una delle ragazze, nate, come ha spiegato Giuliano Ferrara, davanti al televisore e cresciute nel culto della suo sorriso numinoso. Tra i commenti on-line alle immagini caricate su Youtube dell’intervista di Nadia Macrì ad Annozero spicca quello, estatico, di un utente che investe il premier del potere taumaturgico di incarnare i sogni proibiti di tutti i maschi italiani eterosessuali: “spero che se le sia ingroppate tutte”, giubila l’anonimo, “perché lui è il presidente del Consiglio e se lo ho fatto è un po’ come se lo avessi anche fatto io”. L’apice della corruzione assoluta: iscrivere nel reale tutto quello che apparteneva all’ordine del sogno. Forse non ci si aspettava che la fantasia prendesse il potere in un senso così letterale e che da quel momento ogni atto del potere sarebbe stato avvolto da una patina fantastica. Ferrara, che con una certa intelligenza intuisce il pericolo di questa confusione, dichiara che la telefonata di Berlusconi in questura è stata un errore ma che poi ci è stato costruito sopra “un romanzo per entrare nelle vite degli altri”: il problema è che da tempo la scena su cui questa vita (e questa alterità) può rendersi invisibile non esiste più, da tempo è stata trasformata in una proiezione dell’immaginario, in un bene eucaristico che la collettività viene invitata a consumare (un po’ come quell’immagine, e poco importa che sia vera, in cui il premier sfila nudo davanti alle ragazze di Arcore, in attesa di offrirsi a ciascuna di loro, nello spazio discreto del sacrificio), da tempo il privato è diventato la merce principale sul terreno della rappresentazione pubblica - e tutto ciò che è pubblico, di conseguenza, è stato simbolicamente distrutto. Se il potere si costruisce come icona – “icona pop” come proprio il direttore del Foglio aveva a suo tempo, non si sa quanto ironicamente, definito il Presidente del Consiglio – non ci si può lamentare, poi, se diverrà oggetto di una sfigurazione: il volto attonito e sanguinolento disegnato da Tartaglia con il suo folle passage à l’acte (che incarna anch’esso un desiderio collettivo) è solo l’altra faccia del volto cristallizzato in un eterno sorriso; le foto domestiche che sulle pagine di “Una storia italiana” esibivano la felicità familiare come trionfale valore aggiunto nella lotta per la competizione politica, nello smaccato tentativo di privatizzare quest’ultima, già alludevano alla foto segreta, probabilmente impossibile, di cui tutti ora sono alla spasmodica ricerca. No, non è la magistratura a scrivere il romanzo italiano scaturito dall’immaginazione di un potere osceno che non riesce più a controllarne i flussi, a distinguere la realtà dalle finzioni di cui l’ha continuamente investita. In Gottland, Marius Szczygiel racconta i paradossi del trattamento ideologico a cui i dirigenti dei partiti comunisti dell’Europa dell’Est sottoponevano la realtà, persino quella geofisica: così, nel corso di un convegno scientifico, un tale Kopecky, ministro dell’informazione nella Cecoslovacchia staliniana, poteva affermare che l’Elbrus era la vetta più alta d’Europa, screditando l’opinione corrente che attribuiva questo primato al Monte Bianco come “un anacronistico retaggio del cosmopolitismo reazionario.”[5] Il parlamento italiano non dispone fortunatamente di una narrazione così totale e devastante come quella comunista per mutare i dati ordinari del sapere geografico. Ma un suo organo, la giunta per le autorizzazioni a procedere, si è spinto anche più in là nel commercio pirandelliano tra il vero e il verosimile, decretando la plausibilità di un’affermazione evidentemente immaginaria: chiamando la questura di Milano, Silvio Berlusconi agì nella convinzione che Karima El Marough, meglio nota come Ruby Rubacuori, fosse veramente la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak. Una persona può essere scambiata per un personaggio e il soprassalto di un clown nella sua progressione dal finto al vero diventare un gesto che chiama in causa la dimensione sovrana; in questo slittamento indeterminato tra il Berlusconi uomo, il Berlusconi cittadino e il Berlusconi presidente del Consiglio, ogni possibilità di trattenere una verità si smarrisce, si confonde e, finalmente, viene consegnata all’arbitrio di una convenzione formale. Se fossimo a teatro, potremmo almeno condividere il godimento supremo di un’ alchimia che salda l’essere e il non, dove, come scrive Katherine Mainsfield in una pagina dei suoi diari, arriva finalmente il momento in cui si smette di recitare e “ questo momento ci può cogliere anche di sorpresa, i due caratteri si sono confusi (…) la finzione è diventata azione reale.”[6] Finzione perfetta, azione reale: questo momento, anche se può sembrare incredibile, è quello in cui Silvio Berlusconi, annunciato dal suo caposcorta, parla con il funzionario della questura di Milano e dice di essere il Presidente del Consiglio, mettendo ogni sua affermazione successiva sotto l’aura di autenticazione della sua funzione (e per quel che ci riguarda, della sua finzione) sovrana: è perché Berlusconi è il presidente del Consiglio che la ragazza fermata può essere la nipote del presidente egiziano Mubarak, cioè un affare di stato. Se mentendo si riesce a mentire anche a se stessi, si diventa veri. D’altronde, come dice l’umorista americano Arthur Bloch, nessuno è più sincero di un politico che mente. Il meccanismo dell’auto-inganno è stato variamente analizzato in passato e di recente[7]. “Le sabbie mobili delle dichiarazioni menzognere di tutti i tipi – scriveva Hannah Arendt a proposito dei retroscena sulla politica americana in Viet Nam svelati dai cosidetti Pentagon Papers – volte a ingannare gli altri quanto se stessi, sono in grado di fagocitare qualsiasi lettore tenti di esaminare questo materiale, il quale, sfortunatamente, ha costituito la struttura portante della politica interna ed estera degli Stati Uniti per quasi un decennio”[8]. E l’auto-inganno risulta ancora più pericoloso dello stesso inganno, perché l’ingannatore che inganna se stesso, dice ancora la Arendt, “perde ogni contatto non solo con il suo pubblico, ma anche con il mondo reale, che però può ancora toccarlo, perché costui può estrarre da esso la mente, ma non il corpo”[9] Il romanzo delle intercettazioni rappresenta uno slittamento ulteriore rispetto ai Pentagon Papers, perché qui non si tratta più, come nel caso di Johnson e Nixon, di falsificare dei fatti in nome dell’immagine internazionale di un paese, o di un qualunque altro “superiore” interesse, ma di utilizzare la menzogna come strumento di ricreazione dell’illimitata sperimentazione esistenziale a cui il potere dà accesso. Non è la menzogna ad essere instrumentum regni, è il regno che diviene lo strumento della menzogna, senza alcuna preoccupazione per l’ordine trascendente di verità che eventualmente la giustifica, come ancora accadeva nel mondo totalitario dove l’auto-inganno era fondato sulla fede nei fini ultimi del processo rivoluzionario: la ragione del potere non risiede più fuori di esso, e nemmeno è immanente ai suoi atti, è anch’essa confusa in un vorticoso movimento di privatizzazione autoreferenziale, e dunque di de-realizzazione narcisistica, del mondo. Poco importa che la finzione sia creduta, anche nella Cecoslovacchia di Novotny, probabilmente, la gente ha continuato a non credere che l’Elbrus fosse la montagna più alta d’Europa: il potere, anzi, consiste proprio in questa capacità di negare l’evidenza, formalizzando una narrazione unica (o un’unica lingua per raccontare le cose), una narrazione sovrana. Lo scontro con la magistratura, che parla di “abuso della qualità di presidente del Consiglio” (e fondamentalmente, quindi, di una privatizzazione della famosa funzione) è particolarmente urticante perché non ha per oggetto l’opinione su quanto accaduto alla questura di Milano, ma appunto il potere di istituire un racconto dotato di caratteri sovrani, cioè capace di produrre (o di inibire) effetti reali. Nel frattempo, si avanza insinuante una nuova ipotesi epistemologica (della quale non si misurano ancora a pieno gli effetti devastanti): l’idea che la verità sia riconducibile a uno statuto maggioritario e che dissentire rispetto ad esso equivalga a un attentato contro la democrazia (il golpe mediatico, quello giudiziario etc.). Anche nel caso della versione del cosiddetto Rubygate ufficializzata dal parlamento , il vero è diventato un momento del falso. Il romanzo conquista in tal modo una sua effettività. Mentre la politica scivola parallelamente nell’irrealtà. Avevamo già avuto il sospetto, del resto, che i vari Tony, George, Vladimir, per non dire dell’impresario circense chiamato Muhammar Gheddafi, con i suoi cavalli berberi, i suoi plotoni di odalische e la lanterna magica dell’epopea anti-colonialista impressa sulla camicia, non fossero dei personaggi del tutto reali. Ora sappiamo che il Mubarak del Cairo, contro cui masse di persone scendevano in piazza nelle città egiziane, non è esattamente il Mubarak di Arcore, non può esserlo, appartiene a un altro ordine della percezione, l’ordine della fiabesca Realtà Integrale dove ogni corpo, ogni luogo, vengono ricostruiti a immagine e somiglianza di una sovranità del desiderio che coincide magicamente con i desideri del sovrano. Dopo la telefonata, la questura consegna, o più che altro restituisce, Karima El Marhoug al “favoloso mondo di Nicole Minetti”[10], riconoscendo implicitamente di non poter esercitare alcuna giurisdizione su un’entità immaginaria. Cosa è reale, dunque? Solo il desiderabile, come Berlusconi ammise in una famosa conferenza stampa con l’amico Putin dove, con il colpo di spugna di una battuta – e sempre col sorriso sulle labbra – cancellò di incanto le sofferenze della popolazione cecena sottoposta alle sistematiche esazioni delle armate russe soltanto perché tali sofferenze erano sgradite all’ospite. La sofferenza, Berlusconi lo ha fatto più volte capire, è estranea al mondo “straordinariamente estetico”[11] in cui il tycoon televisivo ha, fin dall’inizio della sua discesa in campo, deciso di immergere il paese. Sospeso tra Disneyland e i castelli in cui gli aristocratici del marchese De Sade sperimentano il limite estremo dell’abiezione e pescano nel pozzo senza fondo del desiderio, Arcore non è né una residenza privata, né un luogo politico, è il set utopico di una transustanziazione del reale nell’immaginario e viceversa, la scena di un’epifania dionisiaca del potere a cui si viene iniziati, come Nicole Minetti spiega, con la sua lingua ineffabile, all’amica invitata. “Ne vedrai di ogni” è la promessa visionaria di un potere spettacolare e delirante che si pone all’inizio e alla fine di ogni possibile godimento: fantastico e abietto, munifico e tirannico, paternalista e stupratore, sontuoso e squallido. Tutti possono in qualche modo accedervi, i requisiti sono interclassisti: l’alto e il basso si ritrovano a contatto, come nelle migliori tradizioni della fiaba sentimentale o della cerimonia libertina, Fede e Mora, intendenti del Sogno ad occhi aperti, battono il sottobosco televisivo con la scarpetta di Cenerentola. Tutto vi è in un certo senso permesso, ma all’interno di rigide regole di rappresentazione, la prima delle quali impone di non dire mai quello che si è o quello che si fa. “E poi ci sono io, dice Nicole Minetti alla fine del suo elenco, con un’espressione che assume un tono involontariamente sapienziale – e che emana forti, romanzesche ombre di consapevolezza - che faccio quello che faccio.” Ma quando Nadia Macrì, alterata dall’alcool, confessa al premier di essere una prostituta viene cacciata via. O almeno, così si racconta. Il corpo ludico, ammantato dalla finzione del desiderio, è sovranamente ambito. Il corpo fuori di scena, letteralmente osceno, quotidianamente crocefisso da quella finzione – e dallo scambio che comporta - è inammissibile, anche se si tratta, con ogni evidenza, dello stesso corpo. Uomo per eccellenza del visivo, imprenditore di una nuova forma di immortalità, il sovrano di Arcore non può accettare una caduta oscena, mortale che lo deprime - e di cui proprio il denaro, per altri versi pieno di grazia, è la cartina di tornasole.
Una crisi di realtà
Un eccesso di immaginario finisce per occludere ogni potere dell’immaginazione: è solo vedendo meno, dice Rousseau, che si riesce a “immaginare di più”. Quel regime della percezione che Baudrillard definisce telemorfosi, di cui la televisione propriamente detta è ormai solo un dettaglio olografico[12], non ammette vuoti e zone morte, è una saturazione permanente di tutti gli schermi disponibili dove il reale, snervato da una continua messa in scena, ha smesso di costituire un mistero ineffabile su cui esercitarsi. Sui loro siti i giornali del premier non esitano a diffondere i video artigianali delle “vere” feste di Arcore, quelle in cui non accade nulla e dove ad essere spiata è una rassicurante banalità. E’ una specie di omeopatia visiva per rintuzzare le immaginazioni troppo sbrigliate – esaltate proprio dai non detti delle intercettazioni - ma anche per sedare le fibrillazioni di una società che, passando attraverso lo specchio di Arcore, teme sempre di più di dover fare i conti con se stessa: ecco il potere che siede a tavola come ognuno di noi in uno di quei megaristoranti di provincia con sale adibite ai matrimoni, ai battesimi, ai compleanni (o, come una suggerisce in Tv una deputatessa della maggioranza, pur di sottolineare la medietà dell’immagine, nel salone delle feste di un villaggio Valtour), appesantito e un po’ annoiato davanti a uno spettacolino di ballerine, squallido ma decisamente innocente. Al lato opposto di queste sequenze da videofonino a cui la precarietà dell’inquadratura conferisce una stimmate di autenticità (“autentiche” come i filmini che giriamo nelle grandi occasioni delle nostre vite familiari e, al pari loro, noiose, insignificanti, piatte), ci sarebbe il mitico scatto che mostra la flagrante depravazione del premier. In un caso e nell’altro, tutti sembrano convinti che le immagini siano dei fatti. Se ci sono immagini, è proprio perché da immaginare non c’è più nulla: la realtà in persona si offre nella sua trasparenza definitiva, palmare, tautologica. La fotografia ultima è, non a caso, immediatamente impugnata dalla difesa di Berlusconi: se essa esiste, dicono gli avvocati, è sicuramente falsa – cioè se essa esiste, ogni immaginazione ulteriore non potrà che interrompersi e morire con essa, alle soglie di una verità inafferrabile che il potere, da parte sua, respinge sempre al mittente come un effetto distorsivo, una patologia del suo sguardo ossessionato. Nessuno saprà mai cosa è veramente accaduto sul Monte Moria: il muro dell’osceno è invalicabile, la follia del passage à l’acte non è rappresentabile. Siamo in pieno dentro “l’esigenza contraddittoria e simultanea di non essere visti e di essere perpetuamente visibili.”[13] Ma soprattutto, questo dibattito attorno all’intermittenza del visibile, al dileguarsi del dio dalle cangianti apparenze della sua trasgressione in forme umane, svaluta la profondità della testimonianza rivolta a quel che non si vede e che, in quanto tale, eccede l’ordine della prova. La mouse trap del racconto giudiziario e quella del racconto sovrano, in questo senso, si chiudono ermeticamente una sull’altra, occludendo nel loro scontro parossistico ogni trascendenza, ogni fuga in avanti nel (o del) simbolico. Difficilmente il romanzo delle intercettazioni si presterà alla stessa forzatura poetica che Pier Paolo Pasolini imprimeva al suo “romanzo delle stragi”, facendo rintoccare, prima di ogni squarcio aperto sulla tela opaca della storia della Prima repubblica, il metronomo oscuro di quell’”Io so” ( e già solo quest’ “io” di pubblica crocefissione, quest’io luterano, dreyfusardo, riveste un’identità che oggi suona, poiché anzitutto suona, più inconcepibile che improponibile) pronto a testimoniare non quel che si vedeva – anche se pur sempre, è vero, attraverso il visibile – ma quello che, appunto, non si poteva vedere. “Io so./Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (…)/Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969./ Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna (…)”[14] La prima cosa che viene in mente, rileggendo questa pagina per l’ennesima volta, è il permanere del suo paradosso, poiché tutti questi nomi saputi, invece, ancora oggi non li conosciamo (ma non è, appunto, l’Italia che si è costruita nella rimozione di questa coscienza estrema che non li conosce o che continua a riconoscerli senza volerli conoscere?). “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi./ Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o si tace (…).” E’ nel buio dell’esperienza e dell’istinto (“tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”) che Pasolini attinge la luce della sua veggenza, indimostrata (come ogni profezia che si rispetti) perché ciò che vede al di là dello schermo è anzitutto l’essenza, l’essenza criminale dei poteri italiani. Ma ciò che nel processo telemorfico in cui la nostra realtà è immersa viene continuamente screditato è proprio l’esperienza, quella facoltà “che sembrava inalienabile”, come dice Walter Benjamin e che per l’autore de Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov era alla base di qualunque arte del racconto. Le quotazioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe, aggiunge Benjamin, che continuino a cadere senza fondo: “Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa (l’esperienza) è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili.”[15] Di una realtà continuamente tradotta in spettacolo, anche e soprattutto nel momento in cui sembra esondare dallo schermo per troppa compressione, deflagrare nelle coscienze che si chiedono fin dove potrà spingersi la sua proliferazione di colpi di scena, non si può dare alcuna esperienza, e tanto meno, come dimostra il romanzo italiano, un’esperienza morale: la sua sdrammatizzazione, cioè la sua derealizzazione, è sempre in agguato nelle sue stesse iperboli. Un sottile sentimento di incredulità si confonde all’incantamento morboso con cui l’opinione pubblica accoglie la scena iperreale del Rubygate: tutte queste fantasie realizzate da un uomo di 74 anni non possono essere vere, un tale livello di corruzione della realtà nel sogno perverso di un sovrano ( per di più democratico) è impensabile se non ammettendo che la cronaca politica è ormai una forma superiore, la forma compiuta, di spettacolarità delirante. Anche l’utente di Youtube estasiato dalla potenza sessuale del premier, in fondo, non riesce a credere ai propri occhi. Ogni volta che l’interessato ridimensiona la propria vicenda con una battuta (sul “bunga bunga”, sulle minorenni etc.) non fa che speculare sulla riserva mentale di questa incredulità. E tuttavia, ogni volta, sembra non resistere alla tentazione narcisistica di presentarsi tra le righe dei suoi rilanci sarcastici, come il vero uomo dei sogni, il leggendario libertino che lo si accusa di essere, il recordman da dieci ragazze a notte: negando l’abnorme, incredibile realtà del castello di accuse in cui lo si vorrebbe incastrare, continua ad ammiccare alla sua rappresentazione come se essa fosse un livello superiore di realtà. Il clown si rintana nello statista, lo statista si chiude nel silenzio, la molla dell’eccitazione si comprime, ma poi inesorabilmente scatta all’infuori, e scherzando scherzando Pulcinella si confessa. La negazione diventa un biglietto di ingresso nella Shangri La della deregulation sessista scritto con l’inchiostro simpatico di un desiderio condiviso che, in ultima analisi, costituisce la grande macchina di complicità sociale a cui la telemorfosi berlusconiana continua a sostenersi. Lo spettatore non riesce a staccarsi dallo spettacolo perché, fuori di esso, teme di precipitare in quel vuoto (“di carità e di cultura” per continuare a citare Pasolini) che sente ribollire sotto le finzioni e da cui la commedia del potere, tutto sommato, lo protegge: lo schermo non ci scherma che a noi stessi, alla miseria esperienziale di una vita da voyeur, all’intervallo di piacere sempre più breve, sempre più derisorio, che separa una dose di irrealtà da quella successiva. La realtà resta il retaggio dei poveri, di quelli che si affacciano all’orizzonte della comunicazione globale, che ha ereditato la Storia, con il rilievo anacronistico dei loro corpi e su di essi continuano a misurare il valore della loro testimonianza contro il potere. Per giorni, gli organi di informazione italiani cercano di arginare l’ irruzione, sulla stessa scena in cui impazzano le vicende della “nipote di Mubarak”, delle fiumane nordafricane che, con o senza l’aiuto dei social network, si riversano sulle piazze di Tunisi, di Algeri, del Cairo, poi di Tripoli e di Bengasi, chiedendo a gran voce le dimissioni dei propri capi. In questa contemporaneità sembra agire persino una beffarda vendetta del referente che non sfugge a comici e a satirici, mentre viene tenuta a rispettosa distanza dai media “seri”. Ma è solo un momento, in cui il romanzo italiano si avvita ulteriormente su quella crisi di realtà che lo debilita e nel contempo ne rilancia la “cattiva infinità”, poiché non c’è alcun cielo dietro le gesta farsesche di questi dèi e tutti (e più di tutti coloro che lo negano) lo hanno sempre saputo. Sulle spiagge vicino a Tripoli la televisione mostra una lunga fila di fosse scavate nella sabbia: esse segnalano che, come dice Wislawa Szymborska in una delle sue poesie, il corpo c’è e c’è e c’è.[16] C’è e tra i paesaggi in cui l’anima vaga, “ora certa, ora incerta della propria esistenza”, non trova riparo. Il corpo c’è e proprio nel suo non trovare riparo non può essere nascosto: esso è tornato ad essere un’enormità. Davanti a questa enormità, Silvio Berlusconi, impresario di corpi televisivamente immortali, tycoon della politica come spettacolo globale, esita, vacilla, cercando inizialmente di replicare il colpo negazionista della Cecenia, di nascondere il massacro dietro il cartello “non disturbare”, vecchia e immarcescibile divisa della realpolitik. Un velo cereo, una corrusca ombra di tempesta, offusca il suo sorriso, mentre a malincuore parla di “vento di libertà”, di “gioventù e di internet”, cita imprecisate “violenze”- e nel frattempo cerca di instillare il dubbio sul “dogmatismo anti-occidentale” delle nuove masse arabe. Non è addolorato, è indispettito perché le circostanze lo obbligano a scoprire quello che ha sempre saputo: il rais da Mille e una notte che aveva installato la sua tenda beduina in una villa della zona residenziale di Roma è un assassino seriale. “Diffidate dei pagliacci”, avverte una delle prosperose donne di Altan, “possono diventare feroci”. Nel suo giro di frasi, Silvio Berlusconi riesce a non citare mai Muhammar Gheddafi. Ma ormai il corpo c’è: ogni omissione non fa che renderlo ancor più mostruosamente visibile.
Roma, 24 febbraio 2011
[1] Magdalena Barile/Accademia degli artefatti, One Day. Finalmente vivere servirà a qualcosa, a cura di Simone Pacini, Titivillus, 2010
[2] Jean Baudrillard, Télémorphose, Sens & Tonka, Paris, 2001; Jean Baudrillard, Il Patto di lucidità e l’intelligenza del Male, Raffaello Cortina editore, Milano, 2007
[3] Jean Baudrillard, Télémorphose, cit. p. 9
[4] Alla fine del 2010 Facebook raddoppia il fatturato e Mark Zuckerberg viene nominato “uomo dell’anno” dalla rivista Time. Nello stesso anno esce The social network di David Fincher
[5] Mariusz Szczygiel, Gottland, trad.it. di Marzena Borejczuk, Nottetempo, Roma, 2009, p. 96
[6] Katherine Mansfield, Diari, Robin edizioni, Roma, 2002, p. 183
[7] Mi rifaccio da questo punto in poi a Antonio Funiciello, Il politico come cinico. L’arte del governo tra menzogna e spudoratezza, Donzelli, Roma, 2011, pp. 72-77.
[8] Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, Marietti 1820, Genova, 2006, cit. da Voniciello in op.cit. p. 74-75
[9] Ibidem, la sottolineatura è mia
[10] Il blog di Nicole Minetti su affari italiani si chiama veramente così
[11] Yves Michaud, L’arte allo stato gassoso, Edizioni Idea, Roma, 2007. Il mondo, dice Michaud, è “straordinariamente bello. Sono belli i prodotti confezionati, i vestiti di marca con i loro loghi stilizzati, i corpi palestrati, ricostruiti e ringiovaniti dalla chirurgia plastica, i visi truccati, le rughe stirate…Se una cosa non è bella, bisogna cercare di renderla tale. La bellezza regna. E’ diventata un imperativo: o sei bello oppure, almeno, risparmiaci la tua bruttezza.” (p.9) Di questa estetizzazione della vita, il berlusconismo è evidentemente un’avanguardia.
[12] Jean Baudrillard, Télémorphose, cit., p.8: “Non c’è alcun bisogno – scrive Baudrillard – di entrare nel doppio virtuale della realtà, già ci siamo dentro – l’universo televisivo non è che un dettaglio olografico della realtà globale.”
[13] Jean Baudrillard, op. cit., p. 10
[14] Pier Paolo Pasolini, “14 novembre 1974. Il romanzo delle stragi” in Scritti Corsari, Garzanti, Milano 2010, pp. 88-93
[15] Walter Benjamin, “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov” in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Milano, 1995, p. 248
[16] Wislawa Szymborska, “Torture” in Vista con granello di sabbia. Poesie (1957-1993) a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1998
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